profilo critico di andrea viviani

Nascere con un nome d’arte comporta una responsabilità che Lilith intuisce già giovane, quando si lascia formare (non de-) alla danza e all’armonia. Si scopre bella e utile al mondo in quanto tale, ma non è sulla scia del consumo che orienterà scelte e convenienze.

Inizia presto a crearsi e scoprirsi creativa: performer, asserve corpo, volto e strumentalità che talento e studio le consegnano alla ricerca tematica, contenutistica, formale. Calca con entusiasta ardimento palcoscenici alternativi, foresti, sola spesso ma mai isolata da un pubblico che lei vuole prossimo di vista e quasi tatto. Tesse, impegno dopo impegno, la trama del proprio percorso assumendosene piena la responsabilità, anche fattuale: non una volta sola arreda il proprio spazio, non una volta sola lo definisce avendo con sé gli oggetti che concorrono alla narrativa delle performance. Mute, le più volte, perché Lilith diffida della parola. Fallace, se non nobilitata dall’unico viatico di verità: la poesia della parola estetizzata e bella.

Lilith usa il corpo in quanto tale, e libero da orpelli: nudo. Corpo significante, per sottrazione, dei suoi gesti. Lilith indossa la sua nudità al pari di un abito di scena, ed è duplicemente strumentale: slega dal decoro, libera la mente dal soverchio, e obbliga al focus sul volto, così nobilitato nella sua dignità di maschera.

C’è serio e giocoso impegno, nella ricerca di Lilith. Curiosa (mai contaminata) dal contemporaneo, ne sperimenta tecniche e situazioni, ne studia l’humus culturale d’ispirazione; il più bel fiore, poi, ne rioffre ora in chiave dissacrante e auto-ironica: l’alias Nara, del casato Strabocchi, ora dolentemente seriosa: il precariato del lavoro metafora del coevo esistere precario.

Lontana dalla torre d’avorio, Lilith è nel tessuto urbano che la ospita, quale che sia; è nelle tensioni sociali che lo (e la) animano; è, a diversi gradienti d’agio, nell’avanguardia e nella conservazione.

E c’è indistinta, pregio raro, nei suoi sé di donna e artista.